1. Presentazione
“Carissima Francesca, grazie! Grazie per avermi aiutato a capire me stessa e il mondo che mi circonda! Grazie per il tuo sostegno silenzioso, per non avermi mai dato risposte preconfezionate, ma per avermi sempre aiutato a pormi le domande giuste, quelle che mi faceveno mettere in discussione tutte le mie prospettive aiutandomi a vedere il mondo da una prospettiva diversa. L’anno che è passato è stato molto difficile per me, perché ho dovuto prendere delle decisioni che mi hanno consentito di affrontare quelle relazioni che mi facevano soffrire e di cambiare le regole del gioco. Grazie perché in questo modo ho affrontato anche ciò che mi appariva incerto e inaspettato (…) F.”
Ho deciso di aprire questo articolo con la lettera di ringraziamento di una cliente inviatami al termine del suo percorso di consulenza, perché questi sono gli eventi che ripagano un professionista di tutto l’impegno, gli sforzi, le energie spesi e i dubbi che necessariamente accompagnano un intervento sociale fortemente impregnato di quella che Wright Mills chiamava “immaginazione sociologica” quella competenza che rende ogni relazione un territorio da esplorare e da ridefinire con costante circolarità.
Sono sociologa ormai da più di vent’anni, gran parte dei quali passati dividendomi tra la carriera accademica e quella professionale. Mi sono occupata principalmente di ricerca e di didattica nel campo della salute e degli stili di vita fino al 2003 quando, dopo essermi specializzata, in socioterapia presso A.I.S.T (Associazione Italiana di Socioterapia), mi sono sentita fortemente motivata verso l’intervento sociale, soprattutto per quanto attiene l’ambito della promozione e della prevenzione.
Ho iniziato così a proporre al pubblico seminari e conferenze attinenti agli ambiti disciplinari che avevo fino ad allora coltivato (salute e stili di vita attivi, comunicazione e processi culturali) integrando via via le mie conoscenze in ambito sociologico con lo studio di altre discipline affini e/o complementari (filosofia, antropologia culturale, psicologia, storia delle religioni, yoga, storia della medicina, nutrizione, ecc..) cercando di acquisire più competenze possibili in svariati ambiti del tessuto sociale, trovando utilità anche nelle conoscenze di sociologia della devianza acquisite con il Dottorato in Criminologia. Per molto tempo ho osservato avidamente tutto quello che mi circondava, trovando spunti di riflessione anche nei più piccoli eventi del quotidiano e prendendone puntualmente nota. Ma, soprattutto, ho lavorato su me stessa, non solo per costruire la mia identità professionale, ma per utilizzare me stessa come “laboratorio in fieri”, per sviluppare la necessaria autoriflessività per comprendere il mio sistema di rappresentazioni e quello altrui, per comprendere la natura delle discrasie che avvertivo e individuare dei metodi per superarle riorganizzando il mio sistema di relazioni. L’occasione per intrattenere la mia prima consulenza sociologica individuale si è manifestata naturalmente, quando probabilmente l’acquisizione degli strumenti di ricerca e di intervento che avevo sperimentato sul mio vissuto si era fatta parte integrante della mia identità personale e professionale.
La difficoltà maggiore che incontrai e che, tuttora, talvolta incontro, fu quella di definire la natura dell’intervento. Sicuramente ciò che propongo è un processo trasformativo, laddove sussista nella persona un disorientamento, una discrasia o semplicemente una intrasparenza nel proprio vissuto e delle strategie per affrontare le sfide della vita. Molti lo chiamerebbero “percorso di crescita personale”, ma trovo questa etichetta un po’ inflazionata, troppo utilizzata anche in ambiti non propriamente scientifici e, talvolta, anche di dubbio accreditamento. Preferisco ancora chiamarla genericamente consulenza sociologica o, detta all’inglese, che dà sempre un’aria di internazionalità: sociological consultancy. A chi vuole poi entrare maggiormente nel dettaglio, spiego quanto riportato nella descrizione del codice Ateco sulla base del quale ho o ottenuto la mia partita iva: “Ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle scienze sociali e umanistiche. Studi sistematici e creativi intrapresi nel campo delle scienze sociali e umanistiche (economia, psicologia, sociologia, giurisprudenza, linguistica e lingue, arti, ecc.). Tali studi mirano ad arricchire il bagaglio di conoscenze esistenti e a migliorarne l’utilizzazione”. Mi conforta essere riconosciuta come soggetto economico. Mi conferisce quella solida affermazione di esistenza di cartesiana memoria: “pago le tasse…quindi sono”!
2. Gli ambiti di lavoro: promozione e prevenzione
Superato lo scoglio dell’autopromozione e della spiegazione di ciò che fa un consulente sociologo, spesso devo cercare di spiegare in quale posizione mi colloco nella pletora dei professionisti del benessere e della salute fisica, mentale e relazionale; generalmente spiego che il mio contributo si pone a livello di promozione e di prevenzione. Non utilizzo sovente con il pubblico il termine “clinico” o “terapeutico”, sebbene siano i termini che meglio connotano il mio lavoro sempre volto, laddove emerga un disagio, a decodificare i meccanismi di interazione tra i modelli culturali di cui sono portatori i miei clienti e a individuare quei conflitti rappresentativi e quelle discrasie che portano a manifestare il disagio stesso. Tuttavia, mi rendo anche conto di come il termine “clinico” e “terapeutico” nell’immaginario comune sottenda, spesso, a una implicazione di carattere medico. In più di un’occasione, infatti, mi è capitato di scontrarmi con il luogo comune: “non sono malato quindi non ho bisogno di un terapeuta” “andrò da un terapeuta quando sarò malato”.
Nella mia esperienza, questo luogo comune porta con sé diverse implicazioni:
1. La malattia viene generalmente percepita come un disagio di natura grave, che sfugge al controllo del singolo. Pertanto la terapia (o l’intervento clinico) vengono vissuti come interventi di carattere “medico”, o meglio, vengono considerati portatori di quel carattere altamente specializzato in grado di trovare soluzioni laddove le competenze di senso comune non siano in grado di arrivare. In tal caso lo “specialista” viene vissuto come colui che ha la chiave per la guarigione. Chiave, però, che ai più non sembra essere detenuta dal sociologo. Infatti, nel momento in cui il disagio si acuisce al punto di destare allarme, il primo professionista a cui il singolo si rivolge è lo psicologo, il quale sembra divenire il referente principale anche per questioni che sarebbero di competenza del sociologo.
2. Posto quanto sopra detto sulla rappresentazione della malattia, nel grande pubblico, non ho rilevato una cultura della prevenzione. Cultura della prevenzione significherebbe vigilare costantemente sul proprio stato di benessere e mettere in atto strategie relazionali in grado di mantenerlo in equilibrio. Noto spesso l’associare il concetto di “sano stile di vita” al fare sport, a mangiare cibi sani, a curare il proprio corpo, talvolta, fino alla deriva edonistica, ma non ho quasi mai rilevato l’attenzione alle relazioni che si mettono in atto. Mi sento di affermare che, in generale, non esiste il bisogno di prevenire poiché si ignora che la prevenzione passi anche attraverso la conoscenza del proprio tessuto relazionale e dei meccanismi di condizionamento sociale e mediale. Prevenire significherebbe agire prima che il disagio esca dal controllo e venga percepito come “malattia”. Significherebbe acquisire delle competenze relazionali in grado di costruire un sociale più armonico, ma, soprattutto, significherebbe comprendere che, laddove il disagio non dipenda da cause interne (per esempio fisiologiche o neurologiche), esso è la diretta conseguenza di una problematica relazionale, che il malessere interiore è lo specchio di un malessere sociale. Ed è proprio a questo livello che la sociologia avrebbe molto da dire facendosi carico anche di una finalità pedagogica in grado di sensibilizzare alla prevenzione e ad aiutare il singolo a decodificare la propria realtà per agire sulle proprie relazioni e conquistare benessere e consapevolezza.
3. Utilizzare il termine “terapia” senza avere una laurea in medicina o in psicologia significa essere passibili di denuncia. Questa affermazione credo che si commenti da sola e credo che meriti approfondimenti in altra sede, approfondimenti, peraltro che si collegano con quanto più volte ribadito nella nostra rete di sociologia clinica a proposito del riconoscimento della figura del sociologo.
Il lavoro sulla prevenzione consta, a mio avviso di due livelli di lavoro:
1. Il primo livello è quello della prevenzione tout court (da pre-venire: cioè “agire prima che l’evento si verifichi), che comporta interventi di promozione del benessere orientati alla ricerca di un’ottimizzazione del proprio stile di vita, dell’acquisizione delle necessarie competenze relazionali, empatiche ed autoriflessive. Quindi tali interventi agiscono prima che insorga il disagio; le iniziative assumono la connotazione della divulgazione culturale e scientifica e la didattica si presenta nella sua valenza educativa, intesa come capacità di condurre verso un certo livello di maturità e di consapevolezza (dal lat. educere: tirare fuori, allevare).
2. Il secondo livello di prevenzione attiene a tipologie di intervento atte a evitare una degenerazione del disagio verso forme patologiche. In questo caso gli interventi hanno lo scopo di fornire ai clienti gli strumenti per la decodifica del proprio disagio, delle proprie discrasie o delle proprie intrasparenze cognitive con finalità di cambiamento.
3. Natura dell’intervento: il lavoro di gruppo e il lavoro individuale
Nonostante le difficoltà incontrate con il pubblico per inquadrare il mio ruolo e per educare alla prevenzione, con chi sceglie di accettare la sfida, organizzo laboratori a tema oppure propongo percorsi individuali.
Il lavoro di gruppo è molto coinvolgente e foriero di risvolti interessanti. Esso si configura come una ricerca-intervento organizzata su un tema di interesse socio-culturale attinente alla salute, agli stili di vita attivi, alla comunicazione e/o ai processi culturali.
Prima di iniziare il laboratorio, che ha durata variabile nel tempo a seconda del tema affrontato, somministro sempre una breve intervista semi-strutturata per comprendere motivazioni, aspettative e universi simbolici dei vari partecipanti. Chiarisco sempre le finalità del lavoro e le competenze che si andranno ad acquisire.
Per i partecipanti il lavoro di gruppo si configura come un’occasione di arricchimento personale e per me esso si configura come un’occasione di studio e di intervento sociale.
Per quanto attiene al piano didattico, il percorso si articola circolarmente sul binomio esperienza-teoria-esperienza, realizzando quella circolarità ricorsiva tra teoria, metodo e prassi comune alla ricerca sociale (Cipolla, 1996). Come spiegherò al paragrafo successivo, uno dei capisaldi del mio intervento sta proprio nel riportare l’apprendimento di concetti complessi all’esperienza diretta e multisensoriale del corpo, inteso come medium cognitivo. Questa accezione l’ho appresa studiando la filosofia yoga sotto la guida del compianto Prof. Pier Cesare Bori (Università di Bologna) che, nell’ambito dei suoi corsi di Filosofia Morale e di Storia delle Religioni, ha saputo darmi il necessario supporto affinchè conoscessi l’interessante impianto cognitivo di questa scienza della conoscenza, così antica eppure così attuale, che viene definita anche come una filosofia pratica; “pratica” poiché la conoscenza stessa poggia sul “fare”; ogni conquista cognitiva poggia sull’esperienza diretta e non meramente speculativa del praticante che, partendo da una ferrea disciplina delle relazioni che comprende lo sviluppo di qualità come: la non violenza, la sincerità, la moderazione, l’apprezzamento di ciò che si ha, la generosità, la capacità di perdonare e la compassione, impara via via a entrare in se stesso e a disciplinare il proprio carico emozionale al fine di ottenere quella stabilità di mente necessaria per avviare un processo di autoriflessività volto a superare i condizionamenti sociali e a liberare il proprio spirito.
Le tecniche necessarie ad ancorare l’insegnamento di concetti complessi all’esperienza corporea necessitano di presupposti teorico-metodologici articolati e non sintetizzabili in poche righe senza rischiare di perdere parte di quel potenziale euristico necessario alla loro comprensione. Pertanto rimando la trattazione dell’argomento a una successiva pubblicazione.
In questa sede posso aggiungere alcune ulteriori considerazioni:
1) Il lavoro in team, pur lasciando spazio anche alla necessaria creatività che si accompagna alla imprevedibilità umana, passa generalmente attraverso diverse fasi guidate dall’esperienza corporea in un ottica di circolarità cognitiva che passa attraverso le seguenti fasi:
1. Fase preparatoria, comprendente semplici esercizi di respirazione volti a sciogliere tensioni e distrazioni e stimolare la concentrazione e l’ascolto consapevole (fase pratica)
2. Introduzione generale al tema (fase teorica)
3. Esercizi individuali, a coppie o di gruppo in grado di stimolare l’esperienza diretta del tema (fase pratica)
4. Confronto di gruppo, mediazione cognitiva, elaborazione dell’esperienza (Fase di restituzione)
5. Fase di approfondimento teorico
6. Ricorsività circolare delle fasi 2-5 fino al completamento del processo di apprendimento
Una delle esperienze più recenti e più stimolanti che illustrerò nel dettaglio in una successiva pubblicazione è stato il laboratorio “Apprendere l’empatia” realizzato nel 2019 con un gruppo di 20 partecipanti (5 uomini e 15 donne) di età compresa tra i 30 e i 50 anni, residenti nell’hinterland bolognese, che hanno imparato ad applicare il metodo empatico alla comprensione della propria realtà sociale elaborando sul proprio vissuto il concetto di empatia mediante un approccio multisensoriale che ha sotteso alla costruzione del sistema rappresentativo.
Se, generalmente applico il lavoro di gruppo all’ambito della promozione, e quindi lo utilizzo in un’ottica di prevenzione di primo livello, il lavoro individuale si pone generalmente al secondo livello di prevenzione, quando il cliente lamenta già una certa difficoltà a decodificare il proprio vissuto ed è animato dal desiderio di comprendere la sua situazione e ad elaborare strategie volte alla risoluzione.
Il lavoro individuale presuppone sempre una co-costruzione dell’intervento ed è animato dalla necessaria creatività sociologica, che, naturalmente non deve essere intesa come approssimazione, ma come un’apertura verso l’inatteso e l’inaspettato. La persona, infatti, per quanto condizionata dal proprio ambiente conserva sempre un certo margine di autodeterminazione, margine che la consulenza sociologica vuole alimentare e sviluppare.
Tuttavia il setting di intervento che, soprattutto nella fase ricognitiva, passa attraverso il colloquio in profondità, si svolge attraverso tappe strutturate:
1) Individuazione da parte del consulente della problematica in atto, del sistema di rappresentazioni in gioco e individuazione delle discrasie
2) Utilizzo di domande stimolo, foto stimolo o altri strumenti stimolo in grado di aiutare il cliente a focalizzare il problema e a contestualizzarlo.
3) Co-creazione delle strategie di intervento
Una caratteristica che ritengo fondamentale nel setting di intervento è l’orientamento all’azione. La consulenza non si ferma all’analisi speculativa, ma è orientata alla progettazione del cambiamento, il che comporta un impegno fattivo della persona e una ferrea motivazione a compiere un lavoro. Per questo motivo tengo sempre un colloquio orientativo volto a individuare la reale motivazione del cliente e, eventualmente, a orientarlo verso forme di terapia più adeguate alle sue reali esigenze.
4. Strumenti
Ogni intervento si avvale principalmente di metodologie qualitative, sebbene, talvolta l’utilizzo di una base quantitativa può rivelarsi utile a livello di valutazione.
Le tecniche che utilizzo con maggiore frequenza sono:
1. Tecniche “classiche”: colloquio in profondità, interviste a diversi gradi di strutturazione, strumenti della sociologia visuale (somministrazione di immagini stimolo e di video, autoproduzione di immagini esplicative da parte del cliente)
2. Altre tecniche: elaborazioni grafiche, drammatizzazione corporea, costruzione di setting comunicativi[1]
3. Più raramente: analisi d’ambiente e osservazione partecipante (utilizzati occasionalmente in fase ricognitiva laddove l’intervento prevede di lavorare in situazione).
5. Competenze
Vi sono alcune competenze di base che ritengo imprescindibili al fine di ottenere quella necessaria visione critica che consenta al singolo di decodificare la propria realtà sociale e ambientale ed ad agire sulle proprie relazioni:
1. Immaginazione sociologica. Come sopra esposto, la capacità di riflettere su se stessi come soggetti liberi e non vincolati da tutte quelle influenze sociali che condizionano inconsapevolmente ogni aspetto della vita quotidiana non dovrebbe essere solo caratteristica dello studio, ma un’attitudine che chiunque voglia affrontare un percorso di cambiamento dovrebbe sviluppare. Il “decondizionamento” è un processo assai difficile che necessita di molta disciplina e volontà interiore e rappresenta spesso l’ostacolo principale di fronte al quale molte persone preferiscono ripiegare sulla propria zona di comfort anche se foriera di disagio. Eppure senza una sensibilizzazione in tal senso ogni vissuto rischia di poggiare sulle fragili fondamenta della risposta automatica, spesso orientata mediaticamente o, comunque, fortemente influenzata da rappresentazioni sociali acquisite passivamente. Dopo anni di lavoro in questa direzione, ritengo utile affermare che non avviene alcun cambiamento radicale nell’organizzazione delle nostre rappresentazioni se ci limitiamo a passare da una risorsa rappresentativa ad un’altra senza acquisire mai la necessaria autoriflessività per comprendere chi siamo e quali sono i nostri bisogni più profondi. Questa affermazione apre la strada alle due successive competenze: empatia e orientamento al corpo.
2. Empatia: Ritengo che il concetto cardine che permette un'apertura costruttiva verso il mondo sia il concetto di empatia poiché, sostanziandosi come quella capacità di mettere tra parentesi (epoché) i propri giudizi di valore o le conoscenze pregresse per poter cogliere la realtà nella sua essenza fenomenica, rappresenta, a mio avviso, il fondamento per una valida ricerca qualitativa e, nell'ambito della vita quotidiana, la qualità che rende armoniose le relazioni interpersonali, soprattutto riguardo agli ambiti di cura e di terapia. Eppure capire e attuare l'empatia è molto complesso perchè non basta averne una comprensione concettuale. L'empatia abbisogna senz'altro di una volontà cosciente a “intenzionare” l'oggetto realizzando l'epochè (fase della “resa”), tuttavia la “cattura” fenomenica avviene mediante un “sentire” complesso che implica la concorsualità sensoriale e percettiva, prima di sfociare in una elaborazione cognitiva; concorsualità che include anche l'altro da sé verso il quale occorre sviluppare la necessaria fiducia e apertura (cfr. Stein, 1998)
3. Orientamento al corpo. Il corpo e le sue rappresentazioni costituiscono oggetto di studio in numerosi ambiti, da quello sanitario a quello psicologico, da quello culturale a quello economico, ma ritengo che utilizzare il corpo come mezzo di apprendimento sia molto utile al sociologo al fine di costruire un intervento volto al cambiamento e alla trasformazione. Il corpo come complesso multidimensionale di funzioni biologiche, psicologiche e relazionali è il mezzo e lo strumento mediante il quale costruiamo le nostre rappresentazioni. Tutto ciò che conosciamo o crediamo di conoscere del mondo è rappresentato sulla base delle nostre funzioni cognitive e sulla nostra tendenza innata a organizzare i dati sensoriali in costrutti semantici. Il corpo non è, quindi, solo un tessuto narrativo nel quale “leggere” reazioni e condizionamenti ma diviene un precipuo mezzo di acquisizione dell’esperienza e di conoscenze anche complesse; uno strumento sul quale costruire l’esperienza educativa e/o terapeutica
4. Flessibilità e orientamento all’inatteso. In una società complessa ad elevata contingenza la capacità di portare cambiamenti al proprio sistema di rappresentazioni diviene particolarmente utile e auspicabile. Spesso sollecito i miei clienti a non focalizzarsi sul problema, ma sulla soluzione. Facendo leva su un vecchio proverbio che recita: “Assieme al problema arriva anche la soluzione” esorto i miei clienti a focalizzare la propria attenzione sul momento presente in cui il problema si manifesta e ad elaborare una serie di soluzioni e di alternative, spesso chiedendo loro di scriverle in elenco. Una delle strategie che ho riscontrato più efficaci è quella di ribaltare la prospettiva e di partire dall’assioma che una soluzione esiste sempre e di stimolarli a trovare diverse opzioni per l’azione.
5. Orientamento alla relazione. Il corso dei miei studi e delle mie esperienze in diversi ambiti del sociale mi ha portato a concepire la realtà in modo integrato mettendo al centro dell’attenzione la relazione. Uno degli studiosi occidentali che esprimono meglio questo concetto è, a mio avviso l’antropologo e sociologo Gregory Bateson. Considerare la relazione come realtà emergente e non riducentesi alla somma dei soggetti in gioco significa ribaltare una prospettiva fortemente centrata sul soggetto, ma per questo fortemente proiettata alla separazione e al conflitto. Laddove al centro dell’attenzione è presente un confine che separa piuttosto una realtà che unisce non si può parlare di integrazione e di comunità. Per questo una visione ecologica della società, appare possibile, solo ribaltando la cornice cognitiva che sta alla base del nostro vissuto rappresentativo.
6. Un bilancio in numeri
Una trattazione del lavoro sul campo non può, a mio avviso, concludersi senza un bilancio in numeri.
Durante un periodo che intercorre dal 2007 al 2021 ho potuto lavorare con 1280 persone con una media di circa 90 persone l’anno, il 30% circa delle quali ha seguito le mie proposte formative per un periodo uguale o superiore ai 5 anni, il 40% per un periodo che va da 2 a 4 anni e un 30% per meno di 2 anni.
Generalmente sul totale delle persone che fanno un colloquio orientativo circa l’1% non è disponibile a proseguire il percorso (di gruppo o individuale) proposto. Generalmente le cause sono legate alla mancanza di disponibilità a farsi carico di un processo di cambiamento, spesso per paura delle conseguenze sul proprio tessuto relazionale. Questo timore si fa strada anche in coloro che decidono di intraprendere il percorso e si fa presente soprattutto al momento di prendere decisioni importanti che cambieranno la propria vita. Una larga maggioranza abbandona la sfida quando “il gioco si fa duro”, e, purtroppo, solo l’1-2% completa il proprio percorso.
Ritengo tuttavia che, indipendentemente dalla scelta di abbandonare o meno un percorso pedagogico, l’intervento sociale lasci comunque degli strumenti utili che starà al singolo decidere di applicare o meno.
Ritengo però che l’impegno della sociologia in un’ottica di sensibilizzazione alla prevenzione e alla responsabilità possa influire positivamente per ampliare le possibilità di cambiamento sociale.
Riferimenti Bibliografici
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Stein E. (1998), il problema dell’empatia, ed. Studium, Roma
[1] Anche in questo caso rimando la descrizione dettagliata delle suddette tecniche a successive pubblicazioni